Romano Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», Vol. 84 (2003) 61-88
La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca
materia dell’insegnamento necessario, quella che appunto riguarda i principi fondamentali:
— come devono essere venerati gli dèi (95,47-50), dove egli enuncia principi tipicamente stoici in senso intellettualistico: deum colit qui novit: 47), e riprende la tradizionale concezione stoica dell’eusebeia (95,50, dove riecheggia Crisippo [cf. Arnim II 1017] da cui dipenderà anche Epitteto [Ench. 31,1]);
— come dobbiamo comportarci con gli uomini (95,51-53): poiché è impossibile esporre tutto ciò che si deve fare o evitare, basta insegnare la seguente norma (formulam) a cui ognuno deve attenersi nel compimento del suo dovere: "Tutto ciò che vedi, in cui è racchiuso il divino e l’umano, costituisce un’unità; siamo membra di un grande corpo. La natura ci ha generati parenti ... siamo nati per vivere insieme" (Omne quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit ... in commune nati sumus: 52s), con citazione del famoso verso: "Sono un uomo, e nulla di umano ritengo a me estraneo" (Homo sum, umani nihil a me alienum puto [Terenzio, Heautontimoroumenos 77]) per dire che è peggio offendere che essere offesi (con richiamo al Socrate di Platome, Gorgia 508CD) e che le nostre mani devono essere sempre pronte a soccorrere i bisognosi;
— come dobbiamo comportarci con le cose (95,54-59), cioè con la povertà e la ricchezza, la gloria e l’ignominia, la patria e l’esilio. Qui il principio è che "la serenità riguarda solo coloro che sono in possesso di un costante e sicuro criterio di giudizio" (inmutabile certumque iudicium 57); infatti, l’azione (actio) non sarà retta se non lo sarà già la volontà (voluntas), ma questa non sarà retta se non lo sarà già la disposizione dell’animo (habitus animi), ma questo a sua volta non sarà retto se non avrà conosciuto le leggi di tutta quanta la vita (totius vitae leges). Opposizione tra pubblica opinione (fama) e verità (vera).
Al termine di questa prima parte (95,60-64), Seneca controbatte la logica dei suoi antagonisti dicendo che chi sostiene la sufficienza dei precetti per regolare la vita enuncia già comunque un principio fondamentale (decretum). Egli poi adduce un paragone interessante, quello del rapporto tra le mani e il cuore, per dire che i precetti sono manifesti, mentre i principi della sapienza sono occulti: ma "la ragione non si accontenta di ciò che è evidente, poiché la parte più lodevole e bella della sua attività sta nell’indagine di ciò che è nascosto" (Ratio autem non impletur manifestis: maior eius pars pulchriorque in occultis est: 61), allo stesso modo di ciò che avviene nelle religioni dei misteri.
II. Conclusione sulla necessità della precettistica, soprattutto sulla base di esempi da imitare: 95,65-72
Quasi in forma di appendice e integrando quanto detto sulla necessità dei principi generali, Seneca aggiunge una breve sezione in cui afferma quasi come concessione la pari necessità delle prescrizioni (praeceptio). L’argomento si giustifica per il fatto di aver detto di passaggio poco prima che sono necessarie entrambe le cose (utrumque iungamus), poiché le radici prive dei rami sono inutili (96,64).
Seneca parte da un richiamo a Posidonio, che giudica necessaria