Romano Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», Vol. 84 (2003) 61-88
La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca
sull’insieme, poiché i precetti particolari sono di per sé deboli e, per così dire, senza radice" (95,12: Imbecilla sunt per se et, ut ita dicam, sine radice quae partibus dantur).
95,13-35: la posizione contraria subito esposta sostiene che gli uomini erano migliori con la sapienza antica, la quale insegnava solo ciò che bisogna fare o evitare, mentre oggi "da quando sono comparsi i dotti, i buoni non s’incontrano più", poiché "ci si insegna solo a discutere, non a vivere" (postquam docti prodierunt, boni desunt ... docemurque disputare, non vivere). La risposta di Seneca è molto articolata e consiste fondamentalmente nel dire che la vita odierna è molto più complessa e peggiorata così da esigere forme nuove di rimedio. Egli procede dedicando prima un lungo paragrafo alla medicina (95,15-29a), in cui dipinge un quadro vivace delle raffinatezze a cui è giunta la società del suo tempo, che però in tal modo ha moltiplicato le malattie, oltre a lamentare che lo studio delle arti liberali venga disertato mentre i giovani si accalcano nelle cucine e nei ritrovi degli scialacquatori (cf. 95,23); perciò la medicina è costretta a provvedersi di molte specie di cure. Specularmente la filosofia deve far fronte a una grave corruzione dei costumi, sicché ciò che in privato è considerato un crimine (come l’omicidio) in pubblico diventa legittimo (la strage di popoli o l’uccisione di un uomo per fare spettacolo): "In tanta perversità di costumi si richiede qualche mezzo più efficace di quelli soliti...: occorre adoperare principi fondamentali per estirpare errori profondamente radicati" (95,34: Decretis agendum est ut revellatur penitus falsorum recepta persuasio); in pratica, bisogna gettare i primi fondamenti per condurre alla virtù, che va amata quasi con un culto superstizioso.
95,36-64: la sezione epistolare più ampia parte dall’obiezione secondo cui alcuni uomini sono divenuti grandi senza avere appreso sottili principi ma solo obbedendo a nudi precetti (95,36). Anche qui Seneca risponde in maniera molto articolata. Non nega che certi uomini abbiano ottenuto in sorte una singolare disposizione d’animo, ma i principi della filosofia (philosophiae placita) da una parte condurranno più rapidamente alla virtù coloro che vi sono inclini e dall’altra aiuteranno i più deboli a liberarsi dalle cattive opinioni condizionate o dalla lentezza o dalla temerarietà. In effetti, "chi è buono per caso non dà garanzie di esserlo per sempre" (Non promittet se talem in perpetuum qui bonus casu est: 39); d’altronde "il merito non consiste nell’azione compiuta ma nel modo di compierla" (Quidem non in facto laus est sed in eo quemadmodum fiat: 40), come si vede in chi assiste un malato: l’azione in sé merita lode, ma se uno lo fa perché attirato da un’eredità è solo un avvoltoio che aspetta un cadavere. "Bisogna dunque imprimere nell’animo una salda persuasione che serva per tutta la vita, e questa appunto è ciò che io chiamo principio fondamentale" (Ergo infigi debet persuasio ad totam pertinens vitam, hoc est quod decretum voco: 44), così come i naviganti dirigono la rotta guardando a qualche stella. Da questo principio fluiranno le azioni e i pensieri, e di qui la vita intera.
Seneca poi procede distinguendo e dettagliando in tre parti la