Romano Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», Vol. 84 (2003) 61-88
La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca
propria, altrettanto qui essa di fatto manca, essendo l’argomento per di più espresso in forma dubitativa. Essa semmai risulta semplicemente dall’opposizione alla tesi contraria, e lo è tante volte quante questa viene ripetuta e confutata.
Quanto al criterio strutturante, dunque, osserviamo appunto che Seneca procede confrontandosi ripetutamente con la tesi opposta, la quale viene richiamata cinque volte (in termini impersonali: inquiunt: 95,4; inquit: 95,6.7.13; quidam: 95,36). Il tono quindi è assertorio ma su di una base chiaramente polemica. Adottando questo criterio argomentativo, l’esposizione risulta strutturalmente irregolare, anche se la ripetizione dell’argomento quasi a cerchi concentrici le conferisce una sempre maggiore solidità.
Ecco dunque la struttura della lettera.
L’autore, dopo aver richiamato l’argomento in forma di quaestio, comincia con un "proemio" (principium: 95,4), in cui si dà subito una secca risposta negativa, scherzando sul fatto che forse Lucilio non se l’aspettava e che quindi non bisogna chiedere ciò che non si gradisce ottenere.
I. Quintuplice esposizione della tesi in opposizione a quella contraria: 95,4-64
95,4-5: a chi sostiene che la vita felice consiste in azioni rette e che a queste conducono proprio i precetti, Seneca obietta che non sempre i precetti conducono ad azioni rette, ma solo quando l’animo li favorisce (cum obsequens ingenium est).
95,6: a chi sostiene che il comportamento onesto deriva dai precetti, i quali perciò sono più che sufficienti a dare la felicità, Seneca risponde che l’onestà dipende anche dai precetti ma non solo da essi (non tantum praeceptis).
95,7-12: a chi sostiene che se alle arti bastano i precetti, questi basteranno anche alla saggezza, Seneca risponde precisando, doppiamente, che alcune arti hanno per oggetto solo strumenti per la vita (come saper girare il timone di una nave) e non la vita considerata nella sua totalità, e che in certe arti un errore conscio è meno grave di uno inconscio (come nel caso di un letterato), mentre nella vita è più vergognosa la colpa di chi manca volontariamente. In più va riconosciuto che tutte le arti sono guidate non solo da precetti ma anche da principi fondamentali (habent decreta sua, non tantum praecepta) come la medicina; le arti speculative poi, come la filosofia, hanno "i propri principi, che i Greci chiamano dogmata e noi possiamo chiamare decreta o scita o placita" (95,10). Qui si cita un brano di Lucrezio [De rerum natura I 54-57, sui principi primi dell’universo] per dire che "nessuno farà adeguatamente ciò che deve fare se non avrà appreso la norma (ratio) in base a cui compiere sempre il proprio dovere, ma non potrà compierlo se avrà ricevuto precetti su di un solo dettaglio e non