Romano Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», Vol. 84 (2003) 61-88
La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca
sembrerebbe avvicinarsi all’analogo genere retorico dei discorsi. C’è però una differenza fondamentale tra i due, ed è che, mentre il genere retorico dei discorsi prevede di norma un uditorio assembleare, quello epistolografico secondo le parole stesse dello Ps.-Demetrio prevede soltanto un destinatario individuale. È vero che la lettera di Platone è indirizzata non a un individuo bensì a un gruppo di persone, ed è pur vero che essa tratta sostanzialmente di materia politica; ma, a parte il fatto che non è comunque indirizzata a un’assemblea di governo, in essa c’è pure qualcosa che si avvicina al tipo epistolare detto dallo Ps.-Demetrio filiko/j, "amichevole"47. In questo caso, come precisa il nostro epistolografo, si può adottare un tono confidenziale sulla base del semplice fatto che "spesse volte chi è in posizione preminente scrive in modo amichevole a chi è sottoposto e anche ad altri che sono uguali, ... a volte anche se non si conoscono (direttamente); e fanno così, non perché entrambe le parti siano amici stretti, ma perché si ritiene che nessuno si opponga a chi scrive in modo amichevole". La qualifica di sumbouleutiko/j riconoscibile alla lettera di Platone, dunque, non riguarda un genere retorico ma un tipo epistolare.
Del tutto contrari invece sono altri elementi, come si vede soprattutto nello scritto di Seneca. Qui la propositio del tema dibattuto nella lettera 95 è addirittura formulata nella precedente lettera 94,52, dove appunto si annuncia il rimando dell’argomento a un momento successivo. Eppure, la sua distanza non fa minimamente problema allo scrivente: "Avevo detto che si doveva differire la trattazione" (95,1: dixeram debere differri repraesentem). In più, all’inizio della nuova lettera, Seneca formula la questione non in termini tetici ma interrogativi, come una vera e propria quaestio filosofica. In questo caso abbiamo contemporaneamente una affinità ma anche una dissomiglianza rispetto a ciò che la retorica stabilisce in materia, come si legge in Quintiliano: "Le questioni sono o infinite o finite. Sono infinite quelle che possono essere sostenute o confutate senza riferimenti a persone, tempi, luoghi o altre circostanze analoghe; i Greci le chiamano qe/seij, Cicerone proposizioni (propositum), altri questioni universali di ordine civile, altri ancora questioni di portata filosofica (quaestiones philosopho convenientes) ... Finite invece sono quelle che implicano dei fatti, delle persone, delle circostanze e altro; i Greci le chiamano u(poqe/seij e noi cause"48.