Romano Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», Vol. 84 (2003) 61-88
La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca
e per di più essi sono generalmente disposti in partenza ad accogliere la parola dell’Apostolo o perché egli ha posto in essere le chiese stesse o perché la sua autorità è comunque riconosciuta. Inoltre, gli ‘ascoltatori’ di Paolo appartengono di norma ai ceti medio-bassi della società, che semmai sono più sensibili alle tecniche del pathos che a quelle del logos vero e proprio. D’altronde, Paolo stesso è conscio e dichiara apertamente di essere "inesperto nella parola benché non nella conoscenza" (2 Cor 11,6)13. E, come ha messo bene in luce Stanley Porter, salta comunque agli occhi almeno una certa differenza tra i discorsi pubblici tenuti da Paolo negli Atti degli Apostoli (dovuti alla redazione lucana) e il testo delle sue lettere, meno ‘costruito’14. In più, è particolarmente significativo il fatto che, mentre la forma oratoria si accontenta di essere compresa in soli tre generi (quelli citati sopra), la forma epistolare antica contava almeno ventuno tipi diversi15; e di questi solo una denominazione concorda con uno dei generi retorici, il tu/poj sumbouleutiko/j, dove però l’aggettivo allude propriamente a un intento non tanto deliberativo quanto di semplice consiglio.
La ricerca attuale perciò, a differenza di chi agli inizi giungeva a sostenere che Paolo in realtà scrivesse dei discorsi16, è molto più guardinga e reticente, quando non collocata su posizioni del tutto opposte come si legge per esempio in uno studio più recente:
Paradossalmente sono gli approcci retorici a Romani, con i loro dibattiti sul genere epidittico o deliberativo o su dove finisca l’esordio, ad essere diventati i peggiori ostacoli (the worst offenders) contro i criteri di intelligibilità e di forza persuasiva17.