Romano Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», Vol. 84 (2003) 61-88
La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca
superiore5. Non c’è dubbio che, come l’odierna critica storica può aiutare a gettar luce sul perché e in base a quali circostanze sia stato redatto un certo scritto, così la critica retorica può aiutare a chiarire come quello scritto sia stato concepito e articolato. Essa infatti appartiene essenzialmente alle scienze della comunicazione, di cui a tutt’oggi costituisce ancora una parte cospicua soprattutto a livello di tecnica suasoria (come per esempio negli spot commerciali)6. Perciò la sua applicazione agli studi del Nuovo Testamento, in linea di principio, non può che essere salutata con soddisfazione, visto che i vari autori delle origini cristiane avevano appunto la preoccupazione di comunicare e di ‘far passare’ un messaggio piuttosto originale.
1. Retorica ed epistolografia
Ma c’è un problema, ed è che l’arte retorica è nata ed è per natura sua destinata a eventi di tipo orale, cioè si applica e dà forma a pronunciamenti espressi direttamente da un oratore di fronte a degli ascoltatori. È un fatto di eloquenza7. Essa quindi vale essenzialmente per i discorsi pronunciati a viva voce, i quali, secondo la notissima distinzione di Aristotele8 ripetuta ormai fino alla noia, possono essere destinati a un’audience riunita o per emettere un giudizio (genere forense, dikaniko_n ge/noj, rivolto a un caso passato) o per prendere una decisione (genere deliberativo, sumbouleutiko_n ge/noj, rivolto al da farsi in futuro) o per sentir lodare/biasimare persone concrete o valori ideali (genere epidittico, e)pideiktiko_n ge/noj, concernente situazioni presenti o permanenti). Se poi questi discorsi venivano scritti, lo erano